I miei articoli
Morire per delle idee
Gli eroi son tutti giovani e belli
Anni 70.
Gli anni del piombo, delle brigate, delle barricate in strada, delle proteste studentesche, degli scioperi in fabbrica, delle lotte armate e di quelle soffocate.
Anni duri e difficili anche per quei cantautori che tentavano di esprimersi liberamente, al di sopra di ogni censura politica (si veda il processo pubblico degli autonomi, al Papalido di Milano, intentato contro De Gregori, il 2 aprile del 1976).
In questo clima politico incandescente, che come vento umido e sabbioso di scirocco presagiva l’esplodere del terrore rosso, si innestarono le voci di quei tre profeti che, prima di tutti, avevano saputo assorbire e interpretare lo spirito di quegli anni.
Questi tre figli di Cassandra dipinsero tra i versi, la folle corsa di quegli eroi, giovani e belli, che riuscirono a tenere alta la “fiaccola dell'anarchia”, prima di spegnersi per sempre.
20 luglio 1893. Dalla stazione di Poggio Renatico, il macchinista Pietro Rigosi decide di impadronirsi di una locomotiva e di dirigersi, alla folle velocità di 50 Km/h, verso la stazione di Bologna. Convinto e persuaso da quelle parole che volevano gli uomini tutti uguali, decise di accendere e rivolgere la “bomba proletaria” verso quei ricchi borghesi in prima classe, che ogni giorno trasportava.
Come Pietro Rigosi, Agapito Malteni faceva il ferroviere. In 30 anni aveva visto la sua Manfredonia svuotarsi. Quegli stessi treni, simbolo di un progresso a cui non seguì alcun sviluppo, rendevano possibile l'esodo di quei contadini che arrendevoli rinunciarono troppo presto alla falce del sud per imbracciare il pesante martello del nord. Interrompere quella transumanza di vite umane, bloccando il treno a Roma o a Barletta, divenne lo scopo per il quale Agapito era disposto a perdere tutto.
Diversa è invece la storia di un impiegato solo e senza nome, proprio come solo e senza nome è il terrore. I suoi trent’anni erano poco più di quelli di coloro che, in quel maggio, incendiavano le 1100 per le piazze, portando avanti quell’utopia di eguaglianza sociale che rendeva tutti coinvolti. Con un solo gesto, con una bomba in Parlamento, l'impiegato avrebbe voluto distruggere quel potere corrotto, verso il quale troppo spesso aveva remissivamente piegato il mento.
Il medesimo destino accomuna le vicende dei tre martiri.
La locomotiva di Pietro fu deviata verso alcuni treni merce e il folle volo che seguì lo schianto, sfigurò il volto dell'eroe giovane e bello, che portò avanti “la guerra santa dei pezzenti”.
Il tradimento di un amico poco utopista, determinò invece la morte di quell’eroe, molto complessato, che era Agapito Malteni.
La goffaggine e la mania di protagonismo del giovane impiegato inficiarono sulla buona riuscita dell'attentato, che si concluse con l’esplosione di un chiosco di giornali e il conseguente arresto del bombarolo.
I richiami ritmici, melodici e testuali che legano le tre opere, pubblicate ad un anno di distanza l'una dall'altra, sono notevoli.
Ma cosa avranno mai voluto dirci Faber, Rino e Guccini nel raccontarci la nemesi prematura di questi eroi mancati?
L'ipotesi che il loro sia un corale inno al terrore è da escludere fin da subito.
Guccini non eseguì “la Locomotiva” durante gli anni in cui la morsa del terrore rosso si fece più stretta.
De Andrè oltre a non eseguire la canzone in concerto, affermò, in un intervista alla Domenica del Corriere, che in “Storia di un impiegato” si era, per la prima volta, espresso politicamente, ma in una maniera sicuramente troppo oscura e fraintendibile. “Il bombarolo” costuisce quindi una satira cruda del terrorismo dei primi anni '70.
L'artista è colui che è in grado di avvertire e prevedere prima di tutti importanti cambiamenti epocali.
L'impoverimento e il calo demografico del Sud spaventavano il giovane Rino, così come le possibili gesta ignobili di schegge impazzite e solitarie attanagliavano gli incubi di artisti e intellettuali politicamente schierati, come Guccini e De Andrè.
Più che un omaggio alla lotta di classe violenta e sanguinosa, le loro canzoni, suonarono in quegli anni, come un monito, come una messa in guardia dai rischi a cui un certo tipo di lotta avrebbe condotto.
Ma i fallimenti delle imprese dei tre eroi, potrebbero essere interpretate anche come il frutto di mirate strategie di potere volte a garantire il soffocamento politico di quei movimenti, riconducibili alla sinistra extraparlamentare, che in quegli anni costituiva la vera opposizione alla Democrazia Cristiana e l’unico argine alla destra economica.
Ma se da una parte le vicende dei tre eroi possono in qualche modo infiammarci lo spirito e spingerci alla lotta, dall'altra quei testi, intrisi di poesia e di sarcasmo, sono la dimostrazione di come sia del tutto ingiustificabile morire, ma soprattutto uccidere, per delle idee.
“Gli apostoli di turno che apprezzano il martirio
lo predicano spesso per novant'anni almeno.
Morire per delle idee sarà il caso di dirlo
è il loro scopo di vivere, non sanno farne a meno.”
- Morire per delle idee, Fabrizio De Andrè
SpiritoBlog di filosofia e di divulgazione filosofica |
Il fascino dietro al disagio
Il falso mito della criticità dell'adolescenza
La figura del reietto, del maledetto, dell'emarginato ha sempre esercitato negli animi e nelle fantasie dei più giovani, una sorta di irresistibile attrazione.
Personaggi come Kurt Cobain, Sid Vicious e Syd Barrett hanno costituito e costituiscono tutt'ora il simbolo di un modus vivendi alternativo e ribelle.
Vite, le loro, fatte di eccessi e di silenzi profondi, di dipendenze e di forti instabilità.
Rockstar consunte divenute idoli indiscussi per ben tre diverse generazioni di adolescenti.
Meteore promettenti, deflagrate sicuramente troppo presto nel firmamento del grunge, del punk e del rock psichedelico.
Ma negli ultimi anni la figura del "disagiato" è divenuta, in qualche misura mainstream, entrando a pieno titolo tra i modelli giovanili più seguiti e apprezzati.
La cultura del disagio emerge fra le mode giovanili (emo, goth e via discorrendo...), fra le canzonette indie che ammiccano all'uso di psicofarmaci quali Lexotan e Valium, nelle sconclusionate e spesso immotivate pratiche autolesioniste e in quelle malsane abitudini autodistruttive perseguite da giovanissimi in piena pubertà.
Dietro quel modo di acconciarsi, dietro quelle pericolose pratiche cultuali non vi è, molto spesso, alcun concreto e radicato disturbo, nessuna seria motivazione.
Ciò che muove molti giovani ad assumere simili comportamenti è forse una morbosa volontà di spiccare tra gli altri, di distinguersi, di affermare il proprio stile, la propria personalità.
Il rifarsi ad un modello, svuotandolo di ogni contenuto rilevante e neutralizzandone ogni genuina tematica eversiva, può contribuire solo alla dissoluzione del modello stesso.
Genitori ed insegnanti tendono spesso a spiegare o a giustificare l'insorgenza del fenomeno ricorrendo a motivazioni trasversali o a falsi miti, come quello, secondo il quale l'adolescenza sarebbe una fase universalmente critica, contraddistinta da crisi identitarie, sociali e sessuali, inevitabili nella vita di ogni essere umano.
Tutto ciò potrebbe risultare anche plausibile se, di mezzo, non ci fossero gli studi e le ricerche condotte dall'antropologa statunitense Margaret Mead, che smentirono la declinazione universale di tale convincimento.
Ne "Coming of Age in Samoa", frutto di una ricerca sul campo condotta tra il 1926 e il 1928 nell'isola di Samoa, la Mead descrive come i giovani samoiani abbiano la possibilità di vivere in un regime di auspicabile promiscuità emotiva, sessuale e rappresentativa, senza alcun condizionamento eccessivo, e come tutto questo contribuisca ad un approccio più sereno e più stabile alla vita adulta.
Più che la manifestazione di un disturbo psichico, in questi casi si ha a che fare con l'esteriorizzazione individuale di una forte pressione sociale, che spinge i giovani occidentali ad assumere abitudini e comportamenti codificati di un modello che può infondere loro una sorta di sicurezza identitaria.
Ma si sà «alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane».
Non nella psiche dei ragazzi e nemmeno fra le rockstar da loro idolatrate, ma fra gli adulti, nelle pressioni sociali da loro esercitate, nei modelli culturali da loro sostenuti e trasmessi vanno ricercate le cause di quei comportamenti così estremi che ci colpiscono e che spesso ci spaventano.
Auto-distrazione
Dietro ogni bisogno c'è una forte mancanza
La vita è quella cosa che ci accade quando siamo distratti a fare altro.
Parafrasando illegittimamente la celebre frase di John Lennon, si può icasticamente descrivere lo straniamento esistenziale in cui spesso ci ritroviamo a precipitare.
Spediti, remiamo contro le infinite distrazioni, contro le mille occupazioni imposte da uno stile di vita frenetico e alienante.
Il tempo a nostra disposizione sembra dissiparsi inesorabilmente in quello stesso flusso in cui siamo immersi.
Il bisogno di una fuga, anche solo mentale, anche solo ideale, pregna ogni nostro pensiero.
Non a caso Pier Paolo Pasolini arrivò a descrivere il media televisivo come il più imponente strumento antidemocratico mai forgiato, in grado di dividere l'indistinta moltitudine umana, in oratori virtuali e inattaccabili, da una parte, e in concreti e inermi fruitori dall'altra.
Ma la fucina huxleyana dello svago di serie è riuscita, solo negli ultimi anni, a partorire il suo più grande capolavoro.
Se è vero che il grado di efficienza di qualsivoglia strumento vada misurato sulla base dell'uso attuale che se ne fa, lo smartphone è, anche solo in potenza, un'arma di distrazione di massa.
Ciò che ci spinge a tuffarci nello sterminato oceano dei contenuti proposti dall'industria dell'intrattenimento, dal trampolino luminoso dei nostri fedeli compagni, è un istintuale edonismo autodistruttivo in grado di condurci verso un momentaneo annullamento dell'io, verso una fugace perdita di consapevolezza.
Con queste parole il sociologo tedesco Erich Fromm, in “Avere o Essere” descrive brillantemente il rapporto tra piacere e soddisfacimento, nella moderna società dei consumi:
“Che cos’è il piacere?
Benché la parola sia usata in diverse accezioni, la concezione più diffusa sembra essere quella di un desiderio che, a tale scopo, non richieda attività (nel senso di vitalità) [...] I piaceri degli edonisti a oltranza, la soddisfazione di sempre nuove cupidigie, i piaceri della società attuale danno origine a diversi gradi di euforia, ma non conducono alla gioia. Anzi, la mancanza di gioia rende necessaria la ricerca di piaceri sempre nuovi, sempre più eccitanti.”
Questo bisogno di distrazione è forse solo il sintomo di un più radicato bisogno di evasione da un'insoddisfacente realtà sociale, verso una più confortevole realtà virtuale.
Una realtà nella quale il tempo non è più tiranno assoluto. Una dimensione in cui i minuti ticchettano indisturbati, senza avvertire il bisogno di convertirsi in danaro.
Una fuga non definitiva che sa di eterno ritorno e che ha i tratti patologici di una vera dipendenza.
Concludo quest'intima riflessione con una meravigliosa citazione strappata dal testo di “Time” dei Pink Floyd e con una domanda che forse resterà aperta: questa fuga palleativa dal e nel bisogno è in grado davvero di renderci felici?
Ticking away the moments that make up a dull day |
The time is gone |
L’amore ai tempi del Grande Fratello
Breve elogio della paura
Che cos'è più forte dell'amore? La paura.
La paura per le conseguenze di un azione irragionevole, commessa nel nome di un'idea, di un sentimento più grande e per la quale non ci si sente completamente responsabili, ma miserabili complici, colti in fragrante.
La paura per l'ineluttabile punizione da scontare sul patibolo della pubblica umiliazione.
La paura di perdere e di alienare se stessi ed insieme la propria umanità, nel labirinto emotivo in cui ci si ritrova ingabbiati.
L'amore di Winston per Julia è un amore clandestino ed eversivo, che germoglia nell'Eden di una lurido monolocale situato nei quartieri, poco sorvegliati, dei Prolet.
Un amore totale che non conosce futuro, destinato ad estinguersi nelle fauci bollenti di un regime onnipresente e pervasivo, sorvegliato da un'entità divinizzata: il Grande Fratello.
Quello di Adamo per Eva è un amore letteralmente viscerale.
Il loro idillio amoroso divampa all'interno di un giardino fantastico ed inaccessibile, un vero Paradiso (dal sanscrito "pairi-", intorno, e "-daēza"-, muro) per l'appunto.
A legarli è un sentimento che oltrepassa ogni pudore, ogni convenzione, che li porta a contestare spontaneamente qualsiasi limite prescritto ed ingiustificato, perfino quello stabilito dal grande Architetto.
I primi due filosofi della storia, acerbi amanti della conoscenza, furono per questo puniti e allontanati per sempre dal giardino.
Il filo conduttore che lega insieme il distopico romanzo di Orwell con la Genesi biblica è di un rosso sangue che sa di tradimento.
I consigli del paterno O'Brein sono quelli di un serpente tentatore. È lui infatti ad offrire, tra le pagine del manifesto anti-regime, la mela che condurrà Winston al soffocamento politico e morale.
L'accusa lanciata da Adamo non è che un vano tentativo di riconciliazione con il Padre.
Tentativo che avrà come unico risultato la disintegrazione della fiducia che aveva sorretto e guidato il suo rapporto con Eva.
Per questa ragione, da lì in avanti, la vergogna vestirà con foglie di fico i corpi ed insieme le coscienze dei progenitori dell'intera stirpe umana, macchiate indelebilmente dal peccato originale.
L'abiura di Winston Smith arriva invece a seguito di una serie di disumane torture fisiche e mentali.
Disconoscendo Julia, egli riceve la totale remissione dai peccati commessi.
Rinunciando a tutto ciò che fino a quel momento aveva infiammato e conferito un senso alla sua anonima esistenza, egli ha salva la vita.
La paura non pervade solo gli animi degli amanti posti dinanzi ad una scelta cruciale, ma riempie anche i pensieri e le preoccupazioni di chi è al vertice dei più serrati regimi totalitari e teocratici.
L'indiscriminato accesso alla conoscenza avrebbe reso, infatti, i primi essere umani degli esseri ontologicamente superiori, delle vere e proprie divinità.
Per mantenere l'equilibrio e per rinsaldare il rapporto gerarchico tra creatura e creatore, questa apoteosi doveva essere arrestata.
Era forte la necessità di evitare che il regno celeste ed autocratico divenisse un Pantheon aperto e democratico.
Il fuoco prometeico della sapienza doveva rimanere segretamente custodito lì, in Paradiso, nelle mani dell'unico vero Dio.
La sediziosa relazione tra Julia e Winston costituiva, parimenti, un'aperta dichiarazione di guerra ideologica nei confronti di ciò che il regime oceanico aveva rappresentato fino a quel momento.
Come schegge impazzite i due amanti rischiavano di far saltare l'intero castello di carte che il Partito era riuscito a tirar su dopo anni di controllo sulle masse, da parte della Psicopolizia, e di "riscrittura storica" di documenti e giornali, per mezzo del Ministero della verità.
La minaccia doveva essere disinnescata al più presto.
La loro storia sarebbe potuto divenire, in futuro, il simbolo di una devastante ed incontrollata ribellione.
La paura è un'emozione primaria in grado di risvegliare il più recondito fra gli istinti primordiali dell'essere umano, quello dell'autoconservazione.
Un istinto che guida irresistibilmente e in maniera più o meno manifesta, le scelte individuali in situazioni di estremo pericolo.
Ed è proprio in tali situazioni che, almeno in prima istanza, ogni sorta di sovrastruttura razionale viene spazzata via, ogni tipo di legame affettivo rinnegato ed ogni promessa tradita.
In quegli attimi la freudiana pulsione di morte smette di esercitare la sua egemonia sull'istinto sessuale e l'adulto impaurito, si fa bambino, fuggendo via dalle proprie responsabilità.
Che sia il dono trasmessoci da una divinità superiore o il prodotto patologico di una strategia del terrore ben congeniata, la paura è forse il minimo comun denominatore che accomuna tutti gli individui.
Ed è ciò che, in ultima istanza, ci rende umani.
Il dogmatismo di ieri e di oggi
L'assolutismo filosofico consiste nell'opinione metafisica secondo cui vi sarebbe una realtà assoluta, che esiste indipendentemente dalla conoscenza umana, e che si trova al di là dello spazio e del tempo, termini cui la conoscenza umana è limitata.
Al riconoscimento dell'assoluto corrisponde la possibilità della verità e dei valori assoluti, che trovano la propria fonte di legittimazione nell'autorità assoluta.
Tale sedicente autorità svolge il duplice ruolo di pontefice-intermediario tra l'assoluto e il gregge umano, e di garante-difensore dell'indiscutibile Verità, del Dogma.
Nel linguaggio comune il dogmatismo indica l'atteggiamento mentale di colui il quale sostiene in modo intransigente una qualsiasi idea o concezione, rifiutandosi di prendere in considerazione dubbi, obiezioni e critiche.
Tiranni, ufficiali, padri della chiesa, rivoluzionari di professione, accomunati tutti dal medesimo spirito intransigente, hanno intrapreso, nel corso dei secoli, la via del dogmatismo.
Che provenissero dalle ecclesie ateniesi, dai soviet russi o dalla curia vaticana, tutti hanno adottato la medesima tattica per acquisire prestigio e potere.
Una tattica spregiudicata ed aggressiva, basata sul rifiuto del confronto aperto e democratico, sulla ricerca ostinata del consenso delle folle disperate, sulla distruzione o sull'infamia di leader antagonisti e, infine, sull'annichilimento dello opinioni avverse.
Una strategia che ha come obiettivo primario, lo svuotamento della coscienze individuali e l'offuscamento della capacità critica delle masse.
La sorda convinzione di possedere "La" verità ultima ed incontrovertibile ha guidato, nelle varie epoche storiche, rivolte, battaglie, colpi di stato, guerre sante e censure di ogni tipo contro presunti infedeli, eretici, nemici della patria o della classe operaia.
Oggi più che mai il dogmatismo costituisce una minaccia alle libertà di espressione, di confronto e di critica.
Sui social network l'appello all'Ipse dixit, il trinceramento serrato sulle proprie posizioni e il rifiuto del dialogo tra posizioni realmente differenti, sono solo alcuni degli atteggiamenti sintomatici più diffusi.
Per il giurista praghese Hans Kelsen il dogmatismo è la dottrina filosofica più adatta a far da sfondo a sistemi politici autocratici e la più seria minaccia per le democrazie moderne.
Il vero antidoto all'ascesa dei populismi da un lato e alla diffusione del fenomeno del leaderismo politico dall'altro, è nelle mani e nella testa di ogni cittadino-elettore.
Spirito critico, confronto aperto, discussione costruttiva sono le sole armi in nostro possesso per evitare l'ennesimo ricorso storico.
La relativa oggettività di spazio e tempo: Einstein e Kant a confronto
«La grandissima differenza tra gli uomini dipende dalle abilità diverse degli intelletti, che io riduco all'essere o non essere filosofo»
Così recita l’incipit di una fra le più importanti opere di trattatistica scientifica mai pubblicate: il “Dialogo sopra i due massimi sistemi” di Galileo Galilei.
Il padre della scienza moderna fu al contempo un grande filosofo, un pensatore eclettico che rivolse sempre le sue indagini verso la risoluzione di interrogativi riguardanti l’universo empirico e quello umano.
Per Galileo, come del resto anche per Newton e per tutti i pensatori pre-einsteniani, spazio e tempo sono coordinate indipendenti, omogenee e assolute.
L'intera meccanica classica si resse per secoli, su quei fragili presupposti teorici, falsificati poi dalla relatività einsteiniana, che descrivono lo spazio come un immenso contenitore, entro il quale i processi naturali “accadono”. In ogni porzione di questo spazio, indipendentemente dalla velocità dei processi, il tempo scorre uniformemente.
“I. Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; […]
II. Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre uguale ed immobile; lo spazio relativo è una dimensione mobile o misura dello spazio assoluto, che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione rispetto ai corpi, ed è comunemente preso come lo spazio immobile;”
I Newton, Principi di filosofia naturale
Su questo retroterra scientifico e culturale si innesta ed esplode un’altra rivoluzione copernicana, quella del pensiero, quella di Immanuel Kant.
Nella sua "Critica della ragione pura", il filosofo di Könisberg, definisce lo spazio e il tempo come forme pure a priori della sensibilità, collocando così il soggetto umano al centro del processo conoscitivo.
Prima della rivoluzione era l'uomo (soggetto) a doversi adattare alla natura (oggetto), adesso col ribaltamento dei ruoli è la natura a doversi adattare all'uomo.
Lo spazio e il tempo non sono più intesi come coordinate oggettive ed indipendenti, ma divengono coordinate soggettive e trascendenti entro le quali gli individui collocano “il fenomeno”.
Aldilà delle facoltà mentali di cui disponiamo, aldilà delle forme pure a priori di sensibilità e intelletto, vi è sicuramente un'altra realtà, la quale resta però inevitabilmente preda delle più menzognere speculazioni metafisiche.
Kant irrompe e rompe con la tradizione, con l’empirismo sfrenato di Hume e con la separazione netta tra “res cogitans” e “res extensa” attuata da Cartesio.
L’autore della “Metafisica dei costumi” non arriva quindi a negare l’esistenza di una realtà oggettiva e indipendente, ma giunge a sostenere l’inconoscibilità di una simile realtà, del “noumeno”.
L’epistemologia kantiana influenzerà notevolmente il pensiero scientifico, fungendo per secoli da contrappeso teorico alla teoria galileiana e aprendo la strada all'idealismo tedesco.
“Quest’idea dello spazio e del tempo è sempre presente ai fisici, anche se per lo più in modo inconscio, com’è riconoscibile chiaramente dal ruolo che questi concetti giocano nella fisica sperimentale. Ma mostreremo ora che bisogna abbandonarla e sostituirla con una più generale […] Arriviamo quindi alla conclusione: nella teoria della relatività generale le quantità spaziali e temporali non sono definite in modo tale che le differenze di coordinate spaziali possano essere misurate immediatamente con il regolo campione unitario, e quelle temporali con l’orologio standard.”
Die Grundlage der allgemeinen Relativit¨atstheorie, Annalen der Physik, 49, 769-822 (1916)
È con Albert Einstein che i concetti di spazio e tempo vengono ulteriormente rivoluzionati: non più grandezze indipendenti e assolute, ma interdipendenti e relative, soggette in primo luogo agli effetti di dilatazione e di contrazione, legati alla variazione della velocità, e, in secondo luogo, a quelli di curvatura, connessi al variare dell'attrazione gravitazionale esercitata dai corpi.
La teoria della relatività ristretta andò a sostituire la relatività e l'invarianza galileiana (comunque valide per processi a “basse velocità”) mentre la teoria della relatività generale sostituì completamente la teoria della gravitazione universale di Newton.
In questo universo dove ogni cosa appare essere relativa, la velocità della luce nel vuoto costituisce l’unica grandezza invariante, la sola costante universale, l’unica testimonianza di una, seppur fugace, oggettività.
La relatività einsteiniana si dimostrò essere il miglior antidoto contro l'idealismo tedesco.
Mettendo tutto in discussione, stravolgendo le nozioni di spazio e tempo, riuscì, paradossalmente e, in ultima istanza, a porre come fondamento ultimo della realtà, il principio di località: niente nell’universo può viaggiare più veloce della luce e nessun corpo dotato di massa, può in qualche modo, eguagliare o superare la sua velocità.
Possiamo quindi giudicare conclusa questa diatriba? Possiamo essere sicuri di aver compreso al meglio le nozioni di spazio e tempo? Il rapporto gnoseologico tra soggetto ed oggetto ha trovato la sua forma compiuta?
Sicuramente no.
Nel 1982 il fisico John Bell, mise in crisi il principio di località, ricavando dall'EPR (Einstein, Podolsky e Rosen) le omonime diseguaglianze
Lo scienziato nordirlandese dimostrò che in alcuni circostanze (fotoni correlati nello stato entangled) il principio di località è falsificato. Anche l’ultimo baluardo dell’oggettività, la velocità della luce nel vuoto, è stato quindi messo in discussione.
Vi è inoltre un’altra questione aperta, che ha a che fare con i fenomeni microscopici: secondo il fisico italiano Carlo Rovelli la sensazione dello scorrere del tempo è, in un certo senso, un'illusione derivata dall'incompletezza della conoscenza.
Rovelli ha sviluppato negli ultimi anni una formulazione della meccanica quantistica che non richiede la caratterizzazione di una variabile speciale come variabile tempo.
Questa ipotesi “reazionaria” sembrerebbe auspicare un ritorno al kantismo, al noumeno e alle forme pure a priori di spazio e tempo.
La questione onto-epistemologica e gnoseologia dell'oggettività di spazio e tempo è tutt'ora aperta.
Le scoperte scientifiche sembrano infittire più che diradare la questione. Solo una sana dialettica tra la speculazione filosofica e l'indagine scientifica potrà, perlomeno, riuscire a portare chiarezza nel coacervo di ipotesi e di critiche.
Gianmarco Girolami
I limiti della libertà: tra democrazia e anarchia
Confronto ipotetico sul tema della libertà, tra il giurista praghese Hans Kelsen, esponente del positivismo giuridico, e l'anarchico rivoluzionario Michail Bakunin.
«Il concetto di libertà è il fulcro attorno a cui ruotano, spesso in sincronia, le vostre riflessioni politiche. In particolare, l'ideale processo di traslazione semantica del concerto di libertà è lo sfondo e il presupposto contrattuale dei vostri sistemi etico-politici. Da una libertà naturale, “germanica”, passiva, caratterizzata da una totale assenza di condizionamenti esterni, si è giunti ad una libertà sociale, politica, attiva, in grado di condurre all'autodeterminazione politica. Che cosa realmente differenzia la vostra concezione politica? Libertà e coercizione politica sono compatibili?”
-Hans Kelsen: «Nell’idea di democrazia si incontrano due postulati della nostra ragion pratica, due istinti primordiali dell’essere sociale. È la natura stessa che, nell’esigenza di libertà, si ribella alla società. Ma l’esperienza insegna che, se nella realtà vogliamo essere tutti uguali, dobbiamo lasciarci comandare. La libertà naturale si trasforma in libertà sociale o politica. Come sostiene Jean-Jacques Rousseau, è politicamente libero chi è sottomesso, sì, ma alla volontà propria, non alla volontà esterna. Questa trasformazione semantica nella nozione di libertà è una caratteristica meccanica del nostro pensiero sociale. Dalla libertà dell’anarchia, si forma la libertà della democrazia¹»
Per Kelsen la libertà naturale passa attraverso un inevitabile processo di raffinazione, necessario a garantire un'eguaglianza politica a tutti i cittadini.
La libertà politica è la grande conquista della modernità. Per questa ragione lo stato democratico risulta essere l'unico assetto in grado di garantire un'indiscussa sovranità popolare.
Ogni singolo cittadino mantiene la propria autonomia perché è sottoposto alle leggi, che egli stesso ha, in parte, contribuito a promulgare.
-Michail Bakunin: «Fu un grande errore di Jean-Jacques Rousseau l’aver pensato che la società primitiva fosse stata creata da un libero accordo tra i selvaggi. Per tutti i contrattualisti, gli essere umani, al fine di non distruggersi completamente, concludono un contratto, formale o tacito, in base al quale essi abbandonano alcune delle loro libertà per assicurare il resto. Questo contratto diventa il fondamento della società, o meglio dello Stato, poiché la società è completamente assorbita dallo Stato. Ma la società è il modo naturale di esistenza della collettività umana indipendentemente da ogni contratto. Lo stato, secondo questo ragionamento, non è il prodotto della libertà, ma al contrario è il prodotto di un volontario sacrificio e di una negazione di libertà. Si tratta, dunque, di una libertà invocata per limitazione (la mia libertà finisce dove comincia la tua), che conduce a negare alla radice il concetto fondamentale che vuole la libertà stessa indivisibile, nel senso che non si può toglierne una parte senza ucciderla tutta. Così questa teoria, apparentemente giusta, contiene in nuce il dispotismo perché presuppone una società governata da leggi e decreti e non da spontanei costumi e abitudini.²»
Per Bakunin, invece, la libertà individuale è inalienabile e non può essere limitata o rappresentata in alcun modo dall’autorità dello Stato.
All’interno di qualsiasi stato la sovranità popolare è un illusione, la libertà politica è sinonimo di schiavitù e il cittadino è in realtà suddito dello Stato.
Solamente all'interno della società, per mezzo della libera associazione, gli individui possono ritenersi liberi.
¹ Passim. Hans Kelsen “La democrazia”, il Mulino
² Passim. Michail Bakunin “ Federalismo, socialismo, antiteologismo” incluso nel volume Libertà uguaglianza rivoluzione, Antistato, Milano 1976.Federalismo
Partecipazione
Per comprendere a pieno l’origine e l’evoluzione di questo concetto, non si può non rivolgere lo sguardo verso l’Atene del V secolo a.C., patria di grandi politici, filosofi, strateghi e culla indiscussa della civiltà occidentale.
A cavallo tra le due più sanguinose guerre del periodo classico, quella contro i Persiani prima e contro gli Spartani poi, si colloca l'età dell’oro di Atene, un trentennio di crescita economica e di fioritura culturale, senza precedenti, reso possibile dal governo “illuminato” del grande stratega ateniese.
Se si paragonasse Pericle ad un leader in corsa verso il premierato, “partecipazione” sarebbe stato sicuramente il suo motto, il suo slogan politico.
Lo storico Tucidide ne sarebbe stato il propagandista, il più fedele portavoce e il celebre “Discorso agli Ateniesi”, da lui redatto, un vero e proprio manifesto d’intenti, destinato a perdurare nel tempo o nella memoria dei nostalgici.
« […] Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così. […]»
« [...] Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. […]»
Pericle - Discorso agli Ateniesi, 431 a.C.
(Tratto da Tucidide, Storie, II, 34-36)
Sebbene il discorso sia carico di valori condivisibili, il paragone tra la l’Atene del V secolo a.C. e la nostra contemporaneità è, sicuramente, troppo azzardato.
La democrazia ateniese era una democrazia apparente, ferma allo stato embrionale e lo stesso Pericle, benché si proclamasse il suo principale sostenitore e difensore, de facto ne era il padrone incontrastato.
Per ragioni di natura economica, solamente una piccola percentuale della popolazione poteva partecipare attivamente alla vita politica ateniese.
Inoltre, all’interno della polis, gli stranieri, le donne e gli schiavi non possedevano alcun diritto politico.
Ma aldilà dei limiti innegabili, la costituzione ateniese costituì un traguardo importante nell'evoluzione del concetto di partecipazione e un modello utile alla comprensione dello stretto rapporto che intercorre tra diritti politici e cittadinanza.
Le libertà politiche rendono l'individuo, un cittadino, ma quest'ultimo può definirsi tale solamente se partecipa attivamente alla vita politica, se difende i propri diritti all’interno dell’agone politico.
Il disinteresse politico era inaccettabile agli occhi di un ricco ateniese del V secolo a.C. ma lo era, ancora di più agli occhi di un fiorentino del tredicesimo secolo.
Anni di contese tra ghibellini e guelfi, e poi tra guelfi neri e bianchi, trasformarono la città dei gigli in una vera e propria polveriera.
Duri scontri, senza esclusione di colpi, si alternavano per le piazze fiorentine. E poi condanne, esili forzati, arresti non facevano altro che aumentare la psicosi all’interno del regime podestarile.
La politica aveva un peso specifico notevole nella vita dei fiorentini. Qui, più che altrove, la partecipazione politica andava di pari passo con la militanza attiva dei cittadini, che esplodeva nelle lotte senza quartiere o negli assalti fratricidi.
Quale cronista migliore di Dante Alighieri potrebbe offrirci uno spaccato di questa sanguinosa realtà?
Chi più del sommo poeta ha pagato il fio di questo scontro politico?
Il “Ghibellin fuggiasco” fu costretto all’esilio, a seguito della cacciata da Firenze dei guelfi bianchi, guidati dalla famiglia Cerchi.
Fu costretto ad abbandonare definitivamente la sua amata Firenze e ad elemosinare ospitalità ed asilo da podestà, conti e signorotti, in giro per lo stivale.
Non sorprende, quindi, che collochi gli ignavi nell'Antinferno, destinandoli, di contrappasso, alla damnatio memoriae.
L'indifferenza li caratterizzò in vita, l'indifferenza penderà su di loro anche dopo la morte.
« E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: "Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent'è che par nel duol sì vinta?".
Ed elli a me: "Questo misero modo
tengon l'anime triste di coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
delli angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé foro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli". »
(Divina commedia, Inferno III, 31-42)
Azzardando un confronto con la nostra contemporaneità, viene da chiedersi dove sia finito tanto ardore, dove si sia nascosta tanta volontà di partecipazione politica.
L'ignavia egemone degli ultimi anni, trova conferma nella scarsa affluenza ai seggi elettorali, nell'elevato indice di audience di programmi spazzatura e nella diffusione di un disinteresse funzionale, reso possibile da mezzi di distrazione di massa 2.0.
Dove è finito l'attivismo, la lotta politica vera?
Dove sono le manifestazioni di piazza, i cortei?
Dove sono i dibattiti costruttivi, le proposte innovative, i progetti politici seri?
Un diritto non esercitato è un diritto perso
L'aporia della libertà
Se per libertà si intende la possibilità di agire o di pensare in vista di un fine prestabilito, si dovrà necessariamente riconoscere un certo grado di subordinazione della volontà del singolo, a tale scopo.
Così definita la libertà viene ad identificarsi con il potere di plasmare la propria esistenza e di disporne autonomamente tramite la scelta.
Un principio tanto elementare quanto, apparentemente, inconfutabile.
Ma analizziamo con attenzione ogni termine dell’assioma.
In primo luogo si deve tener conto della dipendenza dallo scopo: ogni individuo che si pone un particolare obiettivo, arriva a desiderarne il compimento.
Tra l’oggetto e il soggetto non viene ad instaurarsi quindi un rapporto paritario ed egualitario, ma si sviluppa un “equilibrio complementare”, nella misura in cui lo sforzo del soggetto-fruitore è compensato dal soddisfacimento garantito dall'oggetto-fruito.
Inoltre, una volta acquisito l’oggetto, una volta raggiunto l’obiettivo prefissato, l’individuo smarrisce, di conseguenza, anche il senso del proprio vivere, avvertendo il bisogno di ricercare un altro scopo, verso cui indirizzare la propria volontà.
La volontà, vero motore della scelta, è quindi assuefatta e sottoposta al fine che, autoreferenzialmente pone, e non può, per questo, considerarsi libera.
Il potere di scelta non limita solamente la libertà del singolo, ma, nel suo dispiegarsi, nel suo farsi atto, e talvolta pensiero, giunge a limitare, direttamente o indirettamente, anche le libertà altrui: è cosi nello scontro fra interessi contrastanti e nel confronto fra opinioni discordanti.
La limitazione della libertà individuale è quindi il risultato di un’imposizione autoritaria e illegittima.
L'asservimento e la dipendenza, che caratterizzano la volontà, non sono compatibili con l’idea di libertà.
La libertà non può avere alcun legame con il potere. Essa ne è la negazione, l'antitesi, il superamento.
L’unica vera libertà si concretizza nell'assenza di condizionamenti esterni ed interni, nella liberazione della dipendenza dal particolarismo e nella tensione all’universalismo, nel perseguimento di obiettivi sociali.
La libertà individuale non può subire limitazioni, neppure nello “scontro” con le libertà altrui, in quanto essa può completarsi solamente all'interno del tessuto sociale.
Nella cooperazione e non nell’individualismo, nella collaborazione e non nell'organizzazione gerarchica, l’uomo può definirsi libero.